Il mio modo di intendere la psicoterapia non è soltanto l’uso dell’ipnosi secondo il modello Ericksoniano, già di per se rivoluzionario rispetto ad altri modelli di utilizzazione, ma è anche il modo di intendere e di affrontare le strutture dei problemi secondo concetti dettati dalla mia personale esperienza, costruita in almeno quaranta anni di pratica clinica.
Per prima cosa dobbiamo considerare che i pazienti hanno dei problemi a causa del limiti appresi; sono prigionieri di schemi mentali, strutture di riferimento e sistemi di credenze che non permettono loro di conoscere e utilizzare le proprie capacità con il massimo vantaggio. La transazione terapeutica crea idealmente un nuovo mondo fenomenico nel quale i pazienti possono esplorare le loro potenzialità liberati sino a un certo punto dai loro limiti appresi…
La trance terapeutica è un periodo durante il quale i pazienti sono in grado di rompere le loro limitate strutture e sistemi di credenze in modo da poter sperimentare altri modelli di funzionamento in se stessi.
La proposizione di liberare i pazienti dai limiti appresi e dagli schemi mentali che ne fanno dei ‘prigioni’ è sorprendentemente simile ai principi su cui si fondano alcuni aspetti fondamentali della filosofia “zen”.
I “Koan” dello zen definibili come delle estremizzazioni di metafore ed hanno lo scopo di produrre, attraverso il loro linguaggio paradossale, il cambiamento dell’adepto nel senso della “illuminazione” mistica. La trasformazione si compie, in questo caso, quando l’adepto avrà compreso il messaggio “criptico” del koan, quando cioè avrà infranto gli schemi del ragionamento razionale che lo inducono ad affannose ricerche nelle categorie logiche e si sarà liberato dalle trappole delle “mappe percettive”. L’essenza dello zen è quindi la soppressione della percezione del pensiero logico, verbale, dualistico: per ottenere “l’illuminazione” occorre trascendere il dualismo, intendendo per dualismo la divisione concettuale del mondo in categorie.
La percezione umana è per sua natura un fenomeno dualistico, il che rende quanto meno ardua la ricerca dell’illuminazione.
Al centro del dualismo, secondo lo zen, ci sono le parole: semplicemente le parole. L’uso delle parole è intrinsecamente dualistico, dal momento che ogni parola rappresenta, ovviamente, una categoria concettuale.
Quindi un aspetto particolarmente importante dello zen è la lotta contro la fiducia nelle parole, tuttavia, il nemico dell’illuminazione non è propriamente rappresentato dalla logica; è piuttosto il pensiero dualistico, verbale.
Di fatto è qualcosa di ancor più profondo: è la percezione. Nel momento in cui si percepisce un oggetto, si traccia una linea fra esso e il resto del mondo, si suddivide artificialmente il mondo in parti e quindi si esce dalla “Via”.
Lo sviluppo cognitivo dell’uomo implica una continua costruzione ed elaborazione di modelli che non operano direttamente sul mondo, ma attraverso interpretazioni codificate dell’ambiente. L’ambiente viene interfacciato dal nostri “sistemi rappresentazionali” sensoriali attraverso la vista, l’udito, l’olfatto, il gusto e le sensazioni cenestesiche.
Le informazioni provenienti dall’ambiente sono quindi elaborate per mezzo di strategie apprese e formanti catene di “engrammi” che determinano diversità di percezione e stili di comportamento.
“Come dice Aldous Huxley nel suo ‘LE PORTE DELLA PERCEZIONE’, quando si impara una lingua si eredita la saggezza di tutti coloro che hanno vissuto prima di noi. Ma in questo senso siamo anche vittime, perchè dell’insieme infinito di esperienze che avremo potuto vivere, solo ad alcune è stato dato un nome, solo alcune sono state etichettate con una parola, e in questo modo acquistano rilievo e attraggono la nostra attenzione. Esperienze sensoriali altrettanto valide, e magari ancor più spettacolari e utili, ma che non sono state etichettate, di solito non si intromettono nel campo della coscienza.”