I social media sono il più grande esperimento democratico mai tentato, un’arena virtuale dove tutti possono alzare la mano e dire qualcosa. Il problema è che non c’è nessuno a moderare chi sta parlando contemporaneamente. Come osservava Umberto Eco, i social “hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli,” e con un algoritmo che non distingue Shakespeare da uno sfogo su una partita di calcetto, il risultato è una tempesta perfetta di ciarpame comunicativo.
Facebook e compagnia non si curano della forma: grammatica e sintassi sono optional, come le patatine al fast food. Del resto, perché preoccuparsi della lingua quando un video di un gatto che suona il pianoforte accumula più visualizzazioni di un discorso di Churchill? “Il mondo è un palcoscenico,” diceva Shakespeare, ma oggi sembra più un cabaret mal organizzato dove l’unico criterio per ottenere il microfono è gridare più forte degli altri.
L’algoritmo è il vero demiurgo moderno: decide cosa vediamo, cosa leggiamo e cosa ignoriamo. E lo fa senza un briciolo di buon senso. Una poesia complessa? Oscurata. Una teoria del complotto scritta con errori di ortografia? Promossa con entusiasmo. Come diceva Oscar Wilde, “Il pubblico ha un’incredibile capacità di accettare le forme più mediocri dell’arte.” Wilde però non poteva prevedere che questa mediocrità sarebbe stata gestita da un codice binario.
L’entropia è il cuore del
problema. Più contenuti vengono prodotti, più aumenta il disordine. La desertificazione culturale è inevitabile quando la comunicazione di massa premia quantità e velocità, non qualità. E nel caos, come ammoniva Einstein, “Due cose sono infinite: l’universo e la stupidità umana; e non sono sicuro del primo.”
Ma non disperiamo! Forse è solo la selezione naturale della cultura che si adatta al contesto digitale. Chissà, forse anche l’algoritmo troverà presto una versione aggiornata… magari con un correttore grammaticale integrato!
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