L’idea che l’inferno non esista più non è soltanto una constatazione sul cambiamento della società contemporanea, ma rappresenta il sintomo di una mutazione profonda nell’animo umano e nei suoi sistemi di riferimento. L’inferno, per secoli, non è stato soltanto un luogo immaginario di sofferenza eterna: era un simbolo, un potente strumento di controllo morale che regolava il comportamento individuale e collettivo, alimentando il senso di colpa e la consapevolezza dei limiti umani. La sua dissoluzione non è semplicemente la scomparsa di una minaccia ultraterrena, ma segna un cambiamento epistemologico: non esiste più un “oltre”, un confine netto tra bene e male, tra ciò che è sacro e ciò che è profano. Tutto si mescola in un eterno presente privo di dimensioni trascendenti.
In una società consumista come la nostra, il timore dell’inferno è stato sostituito da paure più immediate, terrene, materiali: la perdita di status, la rovina economica, l’invisibilità sociale. Il desiderio di “apparire”, di essere riconosciuti e validati, ha preso il posto del desiderio di “essere”, trasformando ogni aspetto della vita umana in merce da esibire e consumare. I social network, le piattaforme digitali, i meccanismi di misurazione costante del valore personale come like, follower, visualizzazioni, sono i nuovi altari su cui si sacrifica ogni brandello di autenticità e profondità.
L’assenza dell’inferno come deterrente spirituale ha eliminato la vergogna, quel sentimento che un tempo costituiva il freno etico per eccellenza. La vergogna era il riflesso della consapevolezza di essere osservati, giudicati da un’entità superiore o dalla comunità stessa. Ora, però, persino la vergogna è stata banalizzata e mercificata: il confine tra ciò che un tempo era considerato scandaloso e ciò che è accolto con indifferenza è stato completamente smantellato. L’unica forma di giudizio rimasta è quella del mercato, dove il valore non è determinato dall’etica, ma dalla capacità di attrarre attenzione, vendere, intrattenere.
In questo contesto, l’immagine di un dio come Yog-Sothoth, il “dio idiota” immaginato da Lovecraft, assume un significato inquietante. Yog-Sothoth è un’entità cieca, caotica, indifferente alle sorti dell’umanità, un dio che non premia né punisce, ma che rappresenta il caos primordiale, l’assenza di senso. È un simbolo perfetto per un’epoca in cui tutto è possibile ma niente ha un significato autentico, in cui la libertà di fare qualunque cosa non conduce a una vera emancipazione, ma a una paralisi morale e spirituale. In un mondo governato da un dio idiota, l’uomo non è più protagonista della sua storia: diventa un frammento anonimo in un universo che non risponde più a regole morali o a narrazioni collettive.
La dissoluzione dell’inferno, dunque, non è una liberazione, ma una perdita. Senza inferno, non c’è più il concetto di redenzione, non c’è più un luogo verso cui rivolgere il proprio sguardo per evitare di cadere. L’umanità vaga in un paesaggio desertificato, dove l’etica è stata sostituita da algoritmi e l’identità si riduce a una serie di dati. Viviamo nell’era del “tutto è permesso”, ma il prezzo di questa libertà è l’assenza di un senso condiviso, di una direzione, di un significato. L’inferno, in fondo, non era altro che il contraltare necessario al paradiso: cancellandolo, abbiamo cancellato anche la possibilità di immaginare un futuro migliore.
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